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Non una di meno: per una riorganizzazione femminista delle lotte

Veronica Gago

1.

Tra il 2025 e il 2026 si celebrano i dieci anni del ciclo di protesta che in Argentina identifichiamo come il ciclo delle mobilitazioni Ni Una Menos (la prima chiamata con questo nome è stata il 3 giugno 2015) e degli scioperi, il primo delle donne (19 ottobre 2016), poi transnazionali e transfemministi (dall'8 marzo 2017 in poi). Questa sequenza include, ovviamente, la lotta della marea verde per la legalizzazione dell'aborto: dalla Polonia all'Argentina (2016-2020), passando per la Colombia e il Messico. Senza dubbio stiamo parlando di un decennio di innovazioni in termini organizzativi. Da un lato, cosa di cui abbiamo già discusso durante il processo stesso, la reinvenzione dello sciopero. Sia come processo epistemico collettivo ricercando e assumendo i cambiamenti dei soggetti produttivi e la loro capacità di fermare il mondo – sia nelle sue esigenze pedagogiche e politiche: come trasmetterlo, come tradurlo in potere organizzativo in ogni istanza della vita sociale. C’è una storia da fare dei passaggi programmatici degli scioperi transfemministi, del modo in cui sono state discusse e elaborate richieste e concettualizzazioni su: lavoro domestico, pensioni, quote di lavoro travesti-trans, debito pubblico e familiare, alloggi e affitti, lavoro migrante, educazione sessuale completa, giustizia riproduttiva, proprietà della terra, modello alimentare, sussidi sociali alle famiglie monoparentali (composte da donne e dai loro figli), anti-punitivismo, sindacalismo della riproduzione sociale – e l’elenco non è esaustivo – in risposta alle diagnosi sistemiche dell’interconnessione delle violenze del capitalismo coloniale patriarcale. È fondamentale pensare a questo accumulo di lavoro politico, all'elaborazione dell’intelligenza collettiva e di programma. È anche grazie a questo che possiamo porre domande utili per l’analisi di fase: quale relazione si può stabilire con i processi politici in ogni Paese e a livello transnazionale? si possono schematizzare cicli e sequenze [dei processi] per utilizzarli nell’autoanalisi? Quali sono i territori di politicizzazione aperti dalla rivolta transfemminista? Quali sono le temporalità dello sciopero e i suoi modi di produrre strutture durature nel tempo? Qual è il suo ruolo come calendario organizzativo e come istanza di elaborazione transnazionale congiunturale?

2.

Questo ciclo, poi, è stato prolifico nelle sue connessioni, nelle sue trasversalità e fertile nella sua capacità di produrre modifiche organizzative. Mi riferisco, in concreto, all’impatto degli scioperi e delle mobilitazioni femministe nella composizione degli scioperi indigeni e popolari in Ecuador nel 2019 e nel 2022; al blocco “estallido” e alle sollevazioni in Colombia (2019-2020-2021), e alla sequenza che va dallo sciopero femminista (2018-2020) al “estallido” in Cile (2019), per citare le più significative. Tale intreccio implica un legame sempre più profondo e organico con le forme di protesta popolari, antirazziste e antiestrattiviste. A ciò si aggiunge naturalmente il ruolo conflittuale, ma evidente di questi stessi processi nelle elezioni presidenziali in Argentina (2019), Cile (2021), Brasile (2022) e Colombia (2022). Mi sembra fondamentale, rileggendo pronunciamenti, testi ed eventi di questo decennio, l’emergere di una dinamica al tempo stesso processuale e dirompente, ma di costante espansione delle alleanze politiche e di traduzione e risonanza delle loro modalità organizzative. Tento una sintesi di quelle che possiamo definire “innovazioni organizzative” nei processi di integrazione, espansione e rivoluzione in cui si inseriscono i femminismi: 1) cambiamenti nei portavoce, comprese le leadership femministe e queer; 2) cambiamenti nella valutazione dei compiti e della infrastruttura di riproduzione sociale delle lotte, in particolare delle forme di occupazione della strada; 3) una ridefinizione delle forme di violenza sistemica che, a partire dai femminismi, ci ha permesso di moltiplicare la comprensione di ciò che intendiamo per guerra contro certi corpi e territori; 4) un rifiuto esplicito dell’isolamento dei movimenti femminili e femministi dentro “agende” specifiche o scollegate da dinamiche di mobilitazione sempre più ampie; 5) un mutamento della sensibilità collettiva (attiva o reattiva) rispetto alla violenza di genere come indice strutturale delle violenze capitaliste.

Copertina del primo numero di Teiko

© Ap

3.

Dalla pandemia alle vittorie elettorali dell’ultradestra, possiamo leggere una sequenza controrivoluzionaria rispetto a queste innovazioni, a queste prove, a queste scommesse. Ancora una volta, per brevità, nella pandemia abbiamo indagato e censito: 1) mutamenti cruciali avvenuti nel mondo del lavoro chiamato giustamente “essenziale”, un concetto che si appropria della visibilità e della legittimità del lavoro di riproduzione sociale nel momento di sovrasfruttamento dato dal momento di emergenza globale; 2) un’accelerazione dell’estrattivismo finanziario-immobiliare che colpisce in particolare donne, lesbiche, persone trans, persone non-binarie, popolazioni migranti e razzializzate, producendo speculazioni sugli alloggi, sfratti e debiti; e 3) una riconfigurazione dell’articolazione tra finanziarizzazione ed economie di piattaforma, che assume come scenario privilegiato di estrazione di risorse ed energia lo spazio domestico, gli spazi delle tecnologie comunitarie di legame sociale e il lavoro più precario (retribuito e non retribuito). Questi sono gli elementi fondamentali per intendere la pandemia quale soglia di violenze economiche e finanziarie che si intrecciano pienamente con un’intensificazione della violenza di genere durante quel periodo e che da allora non ha smesso di crescere. Due punti meritano un approfondimento. Da un lato, la pandemia e le sue correlazioni (ancora aperte) amplificano la scena della riproduzione sociale in modo inedito: portano in evidenza l’infrastruttura che sostiene la vita collettiva, i territori e i corpi che coinvolge e la precarietà che supporta, ma anche i modi in cui sono stati politicizzati in risposta alla crisi neoliberale e in chiave transfemminista. Come una radiografia con contrasto, tutta questa trama è stata rivelata. A partire dall’uso della categoria di “lavoro essenziale” che si è diffusa durante la pandemia, possiamo mappare una paradossale riclassificazione della crisi del lavoro salariato e una tendenza all’intensificazione di quei lavori meno riconosciuti come tali, moralizzando e/o criminalizzando molti dei modi in cui si esercitano. Quali sono i corpi che sostengono questa essenzialità e a quale costo (fisico e psicologico)? D’altra parte, la crisi pandemica rafforza la divisione tra proprietari e non proprietari in chiave familistica, rendendo l’abitazione una fonte intensificata di nuovi debiti e un elemento chiave del nuovo ciclo di lotte. In Argentina, ad esempio, la specificità delle famiglie monomarentales (composte cioè dalla sola madre e dai suoi figli) è entrata nel linguaggio comune e nella cultura diffusa grazie ai femminismi, perché coloro che le sostengono si sono organizzate per rendersi visibili, soprattutto dopo la pandemia. Secondo un rapporto del 2020, il 36% delle famiglie è composto da una sola persona, generalmente di identità femminilizzata, che deve affrontare il problema quotidiano di coprire i costi di cibo, affitto, servizi, salute e scuola per bambini e adolescenti. Se consideriamo le famiglie a basso reddito, questo numero sale al 60%. In contrasto con il modello del maschio professionista isolato in un monolocale, valutato quale asset finanziario immobiliare (questa è l’attuale propaganda sulla maschilità di successo e proprietaria, generalmente irraggiungibile per i nostri giovani), la famiglia monomarental sembra il suo contraltare invisibilizzato: la famiglia con a capo una donna, gravata da debiti, che non può esternalizzare i compiti riproduttivi sul mercato. Quando si parla di famiglie monomaternales in Argentina, vale la pena notare una composizione specifica in termini di organizzazione dell’assistenza, che include generalmente membri femminili della famiglia che non sono in casa (nonne all’interno e all’esterno del Paese), come parte di un’effettiva estensione dell’infrastruttura di assistenza. Ma anche, in questi casi, di una rete comunitaria strutturata dall'appartenenza a organizzazioni sociali e politiche. In questo caso, sono evidenti altre infrastrutture di lavoro e di cura, e non semplicemente un “cambiamento di leadership” nella struttura familiare. In altre parole, quando il comando maschile non è quello organizzativo, non c’è semplicemente un cambiamento di sesso e di genere che preserva la funzione, ma un'alterazione dell'ordine politico che la sosteneva. Ciò che un tempo si pensava come “crisi del dispotismo in fabbrica” per spiegare il non adeguarsi delle soggettività operaie alla disciplina, oggi possiamo pensarlo in relazione a una crisi del dispotismo nelle famiglie, come uno scenario legato alla monogenitorialità femminile e alla costruzione di reti di cura non eteropatriarcali. Al tempo stesso, il cambiamento nella strutturazione affettiva-lavorativa-politica nei contesti domestici è accompagnato e sostenuto da una dinamica di finanziarizzazione, che modifica il rapporto tra famiglia e tecnologia finanziaria. La sequenza sta accelerando: la finanziarizzazione della vita quotidiana, che è diventata una forma intensificata con cui attraversare la crisi della riproduzione durante la pandemia, alimenta forme di “guerra civile” che si dispiegano nei territori della precarietà, accanto all’aumento e alla proletarizzazione delle economie illegali. Torniamo alla questione organizzativa: come riqualificare le strategie in un momento in cui le violenze rispondono, in senso controrivoluzionario, a una politicizzazione della riproduzione sociale e alla destabilizzazione delle gerarchie razziste e patriarcali?

4.

Da quando Javier Milei ha vinto le elezioni in Argentina, le dinamiche dell’antifemminismo di Stato si sono intensificate in forma controrivoluzionaria. Le sue dichiarazioni al forum di Davos nel 2024 e nel 2025 hanno mostrato chiaramente il suo allineamento con un copione globale delle estreme destre, ma hanno mostrato anche il volersi presentare quale rappresentante di un paese che è stato esempio, nel mondo, per la forza e la radicalità del suo movimento femminista. Al forum, ha parlato della connessione tra le lotte femministe e quelle ambientaliste, inquadrandole, il primo anno di partecipazione, come forme radicali di giustizia sociale, e dunque aberranti. Tuttavia, nel 2025, ha affermato (in modo controverso) che esistono solo due generi e ha associato l’omosessualità alla pedofilia. Per “antifemminismo di Stato” nel governo di estrema destra, mi riferisco a quanto segue: 1) un attacco sistematico e istituzionale ai programmi di politica pubblica volti a sensibilizzare, prevenire e contenere la violenza di genere, e anche le sue derive in termini di politiche identitarie e di sostegno dell’autonomia economica delle persone colpite; 2) un attacco mirato e, in alcuni casi, criminalizzazione di leader della politica, del giornalismo, delle arti e delle organizzazioni transfemministe, in particolare quelle che si dedicano a forme di economia popolare; 3) una comunicazione governativa che promuove l’incitamento all’odio attraverso la narrativa ufficiale, in particolare da parte del presidente, che legittima gli atti di violenza a livello istituzionale e sociale (gli attacchi contro le persone queer sono aumentati in modo significativo). L’antifemminismo di Stato va oltre le opinioni personali del Presidente e oltre le cosiddette “guerre culturali”, perché è un tipo di attacco che si integra organicamente alle politiche di regolazione strutturale in cui donne, lesbiche, donne e uomini trans, adolescenti, bambini e anziani sono visti come soggetti “sacrificabili”. L’orientamento economico delle politiche anti-gender rivela l'“antifemminismo di stato” come una dinamica fondamentale all’interno del modello di accumulazione globale. Questa forma di antifemminismo, in quanto guerra dichiarata e finanziata con risorse pubbliche contro i generi, è ciò che consente al neoliberismo autoritario di esacerbarsi attraverso modalità fasciste. In sintesi, è attraverso l’antifemminismo di Stato che il governo anarcoliberista intensifica il programma neoliberista autoritario fino a organizzarlo secondo logiche fasciste che mirano all’annientamento di alcune popolazioni. La guerra contro le identità di genere segue una logica espansiva; i soggetti che possono essere sacrificati sono anche migranti, persone razzializzate, persone che vivono con i sussidi statali e persone senza fissa dimora. E tutti vengono considerati sacrificabili, replicando l’intreccio che la dimensione di genere porta con sé anche su queste persone, per cui tutte sono classificate come degenerate, vittimizzate e improduttive. Le ultradestre attuali sono espressione di tale miscela in cui i valori familisti, biologicisti e natalisti esprimono il fulcro di supporto per i proprietari delle aziende tecnologiche, in cui convergono la iper innovazione delle piattaforme e la rivendicazione dei tradizionali ruoli di genere. È miope da parte di alcuni esponenti della sinistra e del progressismo non leggervi una controrivoluzione in corso, o limitarsi a parlarne come di fascismo “preventivo” perché non c’è nessuna rivoluzione a cui esso starebbe rispondendo.

5.

Credo che non sia più sufficiente parlare di una “crisi della riproduzione sociale” per comprendere le dinamiche del capitalismo neoliberale. Abbiamo assistito a una vera e propria guerra contro la riproduzione sociale, di cui la pandemia e le vittorie dell’estrema destra sono sia causa che sintomo. Queste forme di guerra vengono esacerbate per produrre quella che possiamo chiamare, come fa Silvia Federici, la «fascistizzazione della riproduzione sociale». Nel caso dell'Argentina, questa sequenza di crisi-guerra-fascistizzazione va letta come cattura controrivoluzionaria a fronte delle forme di politicizzazione della riproduzione sociale, emerse sia in risposta alla crisi di legittimità del neoliberismo nei primi anni Duemila, sia dopo la massificazione del movimento transfemminista. Così possiamo parlare di “fascistizzazione della riproduzione sociale” per spiegare una dinamica di simultanei impoverimento e sfruttamento della riproduzione sociale che impone modalità di gestione attraverso dispositivi che accelerano la “violenza finanziaria”. Ma anche in questo caso, al centro di tutto – e non come effetto subordinato – c’è una guerra contro quelle popolazioni che hanno intessuto forme alternative per affrontare l’interdipendenza e di porre limiti alla violenza nella vita quotidiana. Con questo intendo dire che quando si parla di “fascistizzazione della riproduzione sociale” vale la pena tenere presente quanto segue: 1) L’antifemminismo come elemento di dinamizzazione dell’intensificazione dello sfruttamento e dell’estrazione di valore, legato alle tensioni che dalla pandemia si intrecciano nei termini libertà e cura; 2) Le dinamiche contraddittorie che si sono legate alla categoria di “lavoro essenziale”, decisive per comprendere le riconfigurazioni delle lotte sul lavoro che lo sciopero femminista ha posto; 3) Nuovi livelli di finanziarizzazione della vita quotidiana, al punto da spingere i nuclei familiari a livelli record di indebitamento per far fronte all’inflazione e alla precarietà, accelerando ancora una volta la formazione di quella che il governo di Milei chiama “libertà finanziaria” per le persone diseredate. Le questioni organizzative che dobbiamo porci affrontano oggi questo scenario orribile: quello di un capitalismo genocida, razzista e patriarcale che si è avventato su ciò che è stato sperimentato in questo ciclo di almeno dieci anni. Farlo richiede di affrontare i modi in cui le lotte transfemministe vengono colpevolizzate, ma anche la loro marginalizzazione da parte di analisi geopolitiche che ancora una volta le rendono insignificanti. Sta a noi riaprire la discussione su un programma che ha ricevuto risposte e attacchi, e tornare a organizzarci a partire da quella dignità che scommette sulla persistenza radicale dei viventi. Sta a noi tessere un antifascismo concreto, antirazzista e orgoglioso delle lotte transfemministe, assumendole sulle nostre spalle con tutti i loro limiti e fallimenti.

(traduzione dallo spagnolo di Bruna Mura e Lorenza Perini)

Copertina del primo numero di Teiko

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